La festa del Centro vista da un critico d'arte varia Stampa

La Festa del Centro di Formazione Giovanile Madonna di Loreto

IL TEATRO COME  RIVELAZIONE DI ESISTERE

 

di Augusto Benemeglio

Come gocce d’amore

Alla fine di una lunga giornata (erano ormai le undici e mezzo di sera) dedicata alla festa del Centro di  Formazione Giovanile Madonna di Loreto - Casa della Pace e al ricordo del suo fondatore, l’indimenticabile Don Mario Torregrossa, anche il fantasma di Noel Coward,  drammaturgo, attore e regista inglese dal gusto sofisticato, autore di Blithe Spirit (Spirito Allegro), che la “Compagnia Oro Extrafino” aveva messo in scena  (testo rimaneggiato, tagliato, interpolato, disossato dalla regista Anna Maria Migani, per sua stessa ammissione) era finito gioiosamente in un girotondo di mani intrecciate e di voci – un coro unico formato da attori e spettatori - che cantavano l’inno del Centro, un inno di speranza, "Come gocce d'amore", (anche il frivolo Coward era divenuto una “goccia d’amore” ? ), intonato, con la sua chitarra, dallo stesso autore, Paolo Migani, figlio della regista teatrale e discepolo amato del “Domma”, il Santo bruciato, che assecondando la sua vena e  il suo talento di giovanissimo chansonnier lo fece, a suo tempo, studiare con Mogol, il più celebre dei parolieri italiani.

 

Pret(re) à porter

E’ stata una bella, splendida  memorabile conclusione, degna del ricordo ancora vivissimo di Don Mario, che ha fondato il Centro oltre trent'anni fa (fine anni Settanta), per ispirazione divina, mentre si trovava nel Santuario della Madonna di Loreto, - del senso di riconciliazione che ha lasciato come eredità spirituale ai suoi parrocchiani e a tutti coloro che l’hanno conosciuto , in particolare al suo figlio spirituale, amico, fratello, figlio (e insieme padre) , suo infermiere h24 , don Fabrizio Centofanti, attuale parroco carismatico di San Carlo da Sezze, prete-scrittore, o meglio, poeta di Cristo, predicatore d’eccezione, uomo di straordinaria cultura e rara sensibilità,  di cui , nel pomeriggio, avevo presentato il suo ultimo libro, “Pre(tre) à porter” , ossia un prete da portarsi dietro, con ovvio riferimento al suo maestro , Don Mario, la cui immagine  campeggia sulla  copertina, ma  il libro è anche una sorta di diario intimo , una cronaca  tutta particolare che parla dei fatti che accadono nel mondo globalizzato , dalle Twin Towers alla morte del rom sotto casa, visti con occhio particolare, un libro che guarda al visibile per parlare dell’invisibile ;  una serie di meditazioni riflessioni metafore sulla vita e sulla morte , sul senso della nostra esistenza, un libro di incontri-scontri , un libro di viaggi della speranza , un cammino di fede in Dio e nel riscatto dell’uomo ,  spesso si tratta di percorsi e traiettorie liturgiche consuete  nelle sue omelie domenicali nella chiesa di San Carlo da Sezze. Insomma , potremmo parlare  di  un Vangelo secondo Fabry. 


Il teatro come rivelazione di esistere

Ma torniamo al teatro, al bel teatro del Centro, di circa trecento posti ( tutti esauriti) , al teatro fortemente voluto, a suo tempo, da don Mario, che ha lottato e donato tutta la sua esistenza per i giovani, per i poveri, per gli ultimi, al teatro quale luogo privilegiato d’incontro tra attori e spettatori.

“Il teatro - mi disse una volta  un maestro come Mario Scaccia - è la gioia effimera di una sera , ma una gioia intensa, unica. Una gioia che tutte le altre arti messe assieme non sapranno mai regalarci. Perché ti dà la sensazione di esistere”. E’ vero. E basta guardare i volti degli spettatori a fine spettacolo per rendercene conto, dai bambini che occupano buona parte delle prime file , ai genitori che se ne stanno quieti e beati nelle file successive , ai nonni delle ultime file , che guardano ancora al futuro e aspettano quella Società (invocata qualche anno fa da Kofi  Annan)  che consideri gli anziani pensionati e infermi  non un peso , una negatività, bensì agenti e beneficiari di uno sviluppo, per gratuità, memoria, amicizia, saggezza, voglia di pace. Ed io ci aggiungerei,  in molti casi, anziani ancora così pieni di energia, di entusiasmo, di voglia di vivere, nonostante l’apparente contraddizione in termini.

Noi eravamo lì per vedere una festa, per gustare uno spettacolo, ma anche per fare un’ esperienza d’incontro tra  attori-mediatori,  da un lato, e noi pubblico, dall’altro, un rito che si celebra da secoli e che talvolta può essere come una rivelazione. Scrive  al riguardo Garboli: “Siamo tutti consapevoli di esistere, ma non è affatto questa consapevolezza a tirarci fuori dalla prigione. Sopportiamo la rivelazione di esistere solo a intervalli, in rari, misteriosi momenti. Il teatro è uno di questi momenti”.

 

Questione di spirito

Ecco, forse noi tutti ci siamo ritrovati  lì , quella  sera del 6 giugno 2010, inconsapevolmente ,  per inseguire questo desiderio di “maggiore pienezza di esistere, rispetto allo sperpero quotidiano che facciamo della nostra vita”,  con quel senso di gioia e di divertimento, ma anche di riconciliazione, di convivialità delle differenze  (vicino a me, oltre mia moglie, c’era Vali, una giovane mamma romena, con il figlioletto e la nipote adolescente, con cui avevamo cenato insieme poco prima nel salone del Centro). Eravamo tutti lì , in quella sorta di terra di nessuno che è il teatro,  lo spazio scenico, il sipario, ma anche la platea, le poltroncine, le vie di transito, le luci soffuse, le zone in penombra; ci siamo ritrovati  in quei confini in cui è possibile sfuggire dai luoghi della necessità. Quelli del teatro sono  luoghi non luoghi , luoghi che esistono solo nel momento in cui li si “naviga”. Infatti non sono sentieri, ma rotte di navigazione,  ed è necessaria  l’arte del traghettare  come momento che si libera  dall’una all’altra sponda ,  che si libera dalle acque, nelle quali il traghettare significa emergere. E insieme alla troupe,  regista, attori, direttore di scena, suggeritore, trovarobe, etc., c’è l’autore che è come un attore invisibile, in questo caso potremmo dire un fantasma, che sta costantemente sul palcoscenico. E questo bisogna ricordarselo sempre, anche se Annamaria Migani dice subito, a scanso di equivoci, che l’opera è liberamente tratta da “Spirito Allegro”  e, per pudore, ne ha cambiato anche il titolo in “Questione di spirito”.


Violet la frivola procace

Va detto subito che la Compagnia Oro Extrafino mette in scene lavori di puro intrattenimento , che divertano il pubblico  nella maniera più semplice e immediata, senza alcuna sovrastruttura , e tuttavia ci mette il massimo dell’impegno, a partire dalla scenografia – molto accurata – ( bravo GPino, l’imitatore de “I Corvi” di Van Gogh, quadro emblematico e funerario del grande artista) ai costumi, al trucco (“Una buona truccatura e mezzo spettacolo è fatto”, diceva Peppino De Filippo), e la scelta di  Coward  non è a caso. E’ l’inventore di un tipo di personaggi che hanno finito per incarnare l’idea stessa della grazia, l’eleganza, la leggerezza, ma soprattutto la frivolezza,  l’unico principio in cui egli crede.

E lo dice esplicitamente un personaggio come  Elyot, che è il suo alter ego , in Private Lives  (La dolce intimità): “Bisogna compiangere i filosofi, ridere dei moralisti, essere frivoli e superficiali”. E questo “spirito allegro”, che in fondo esorcizza la morte  è stato ben colto dalla regia, che ha creato in Violet (la bravissima Angela Marseglia, che si avvale della sua prorompente fisicità, e si diverte un sacco a interpretare il ruolo assegnatole , trasmettendo al pubblico questo suo sentimento di empatia), una single, - mi dice Annamaria-  mentre nel testo era in coppia con il marito,  tutta apparente desiderio di trasgressioni , di momenti di passione , di sesso, che alla fine si riducono  a qualche provocante ancheggiante  allusione e , in concreto,  ad una serie impressionante di bicchierini di bourbon, - talora  stoppati da Ruth, la moglie del protagonista - ingollati uno dopo l’altro.  In questo caso il meccanismo della macchina teatrale creata da Coward, che ha portato “Spirito allegro”  ad un successo di pubblico senza precedenti (duemila repliche) funziona a meraviglia, il pubblico si diverte da morire, ma  Annamaria non ne abusa, per non far scadere a macchietta , o marionetta, la procacissima Violet-Angela.



Monsieur Arcati istrione clownesco

Il testo è  costruito su di un formidabile movimento di entrate e di uscite comparse e coincidenze degno del miglior Feydeau , e anche in questo caso  tutto è stato ben dosato dalla regia. Abbiamo accennato alle entrate di Violet, poi ci sono quelle di Edith, la cameriera imbranatissima , che non ha nulla d’inglese , sembra piuttosto una burina laziale, con quel suo trepestare mezze frasi e la sua frenesia pedatoria , interpretata da una Claudia Rizzo in costante imbarazzo, con la sua voglia di non esserci, e comunque di sparire il più presto possibile , finta ottusa quanto basta per far sorridere il pubblico a più riprese.  Poi ci sono le entrate strepitose di Monsieur Arcati, il personaggio-chiave,  che ha creato movimento, dinamismo, trambusto, ilarità a go go , personaggio ben costruito da Dario Roberti con la sua carica adrenalinica e un pizzico di istrionismo clownesco che lo ha arricchito, gli ha aggiunto una verve che sicuramente non ha il personaggio originario di “Madame Arcati”. Anche Roberti si diverte molto e talora s’incanta al proprio show, fabbricando a colpi di tic, occhi sbarrati, sbalzi di voce, mimica ondulatoria, il personaggio decisamente più comico e tragico insieme di “Questione di Spirito”, il medium che non sa uscire da se stesso, non riesce a padroneggiare i suoi poteri, evoca uno spirito e non sa come farlo sparire.

 

La lingua inglese

Poi ci sono i padroni di casa, i Signori Considine:  Carlo (lo scrittore, che vorrebbe sfruttare la conoscenza del medium e dei presunti segreti della magia per farne un personaggio del suo romanzo)  e Ruth (la seconda moglie, raffinata, elegante, snob, molto inglese), che sono costantemente in scena, e , tra un bicchierino e l’altro,  (i salotti di Coward sono sempre pieni  di fumo delle sigarette, del tintinnio dei bicchieri da cocktail , del fruscio delle vestaglie da seta, delle parole frivole e scandalistiche dei protagonisti) conversano futilmente del passato, della prima moglie di Carlo morta in un incidente, dell’avvenire,  dell’imminente visita di Monsieur Arcati, dei pettegolezzi. Ad un certo punto sembrano voler dire tra di loro, come Pinter : “Ci resta solo la lingua inglese, questa lingua che fa tutto da sé, che è una lingua-universo , un sistema autonomo, una musica, un cruciverba, un luogo di perfezioni e di equivoci, una macchina espressiva che non ha bisogno di andare a caccia di sfumature, allusioni e ambiguità , perché è il regno stesso di ogni ambiguità , un immenso inesauribile arsenale di doppi sensi, e forse un doppio senso in se stessa.

E uno si chiede, ma questa lingua, questo linguaggio teatrale perfetto funziona anche se tradotto in italiano?



Questione di self-control

Diciamo che nella circostanza i doppi sensi e gli equivoci a getto continuo  che inducono  all’ilarità (contenuta) scaturiscono dalla entrata in scena dello Spirito evocato dal medium, ovvero la prima moglie di Carlo (Elvira) che può vedere e udire  solo lo scrittore. Anche se – dobbiamo dirlo - lo spirito femminile interpretato da Chiara Scifo appare bistrato, lustrato, lieve, aereo, grazioso d’aspetto, ma per nulla allegro, uno spiritello del tutto fatuo, dispettoso quanto basta, ma quasi annoiato, un po’ troppo ectoplasma, nonostante dichiari il suo immutabile amore per il marito che vorrebbe per sempre condurre con sé, nel suo mondo sconosciuto anche a lei stessa, mondo in cui , credo, si annoi  terribilmente.

Ma la profondità di  tutti i personaggi di Coward sta nella loro… superficialità,  è una galleria di eterni adolescenti che vivono agiatamente di rendita, senza responsabilità,  senza preoccupazioni, se non quella di essere sempre impeccabili e a modo, non solo in pubblico, ma anche in privato. E’ una specie di autodifesa di classe, di invito a coltivare la propria superiorità attraverso l’unica virtù inglese a cui Coward sempre s’inchina:  il self-control , il controllo di sé, nei sentimenti e nei comportamenti . E in ciò mi sembra che Rosanna De Cianni,  nelle vesti di Ruth, la prima moglie, appare convincente, puntuale, con la sua  aria  e i suoi modi tipicamente inglesi,  la dizione è ottima e la recitazione è decisamente in tono,  un po’ snob,  un po’ sorpresa, un po’ gelosa, un po’ distaccata, un po’ indispettita dei “ tradimenti” del marito con lo spirito della prima moglie, ma sempre molto controllata.  Il marito, invece,  interpretato da Vittorio Capitolino (che è suo marito anche nella vita) disegna uno scrittore un po’ corrucciato,  che talora  fatica  a trovare le proprie simmetrie,  il ritmo, la distribuzione dei contrattempi , il posto giusto, il bicchiere giusto, l’espressione giusta, e il recupero di certe acrobazie naturali  che sono tipiche della commedia dell’arte, ma funziona bene, e con naturalezza,  il meccanismo dei dialoghi con la moglie, la pausa o la battuta  fulminante  che deve far scattare il riso sonoro del  pubblico.

 

Il fantasma di Coward

La regia di Annamaria Migani , l’abbiamo già detto,  è stata puntuale, molto curata in tutti i particolari e i dettagli, attenta alle scansioni interne, alle pause pericolose, alla cadute di ritmo.  E ottimo è stato l’impianto scenografico e in genere tutto ciò che ha realizzato il maestro di palco, Marco Arrivas , le luci, le musiche, gli effetti speciali, la taratura, la dosatura , con un finale davvero fantastico, da incorniciare (credo che il merito sia da dividere tra regia e appunto Arrivas e i suoi assistenti Giampy Passamonti e Margherita De Donato. La suggeritrice Genny De Cristoforo, dal canto suo, ha ricuperato un momento di amnesia di un attore (non diciamo chi, ovviamente) con consumata abilità professionale, chiamandolo al limite dei confini delle quinte. Complessivamente, alla fine, è stato un bel lavoro,  godibile , e il pubblico, don Fabrizio in testa, lo ha attestato con frequenti applausi agli attori e alla regista, che è stata bravissima anche nella riduzione e adattamento del testo, ma il fantasma di Coward , attore e regista anche lui, chissà, forse le sarà comparso durante la notte, per tirarle i piedi, o magari per farle compagnia.

 

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